Gettare indumenti che non mettiamo più negli appositi cassonetti è una di quelle azioni che ci fa sentire bene con noi stessi perchè siamo sicuri di fare la cosa giusta. Eppure la verità è ben diversa da quanto crediamo!
Sono una divoratrice accanita dei documentari sulla moda e anni fa mi sono imbattuta in un’inchiesta in cui venivano smascherati i retroscena di questi cassonetti, ne sono rimasta sconvolta, ma credo di non averne mai parlato qui sul blog ed ecco perchè a distanza di un anno sono tornata sulle pagine di Fashion & Veg.
Partiamo dall’inizio: cosa c’è scritto sui cassonetti della raccolta degli indumenti? Vi riporto quello che è indicato su uno che ho vicino casa, poi lo analizzeremo attentamente.
“Gli abiti usati raccolti in modo differenziato evitano danni all’ambiente e riducono i costi per la collettività perchè non smaltiti come rifiuti. Dopo la raccolta vengono igienizzati. A seconda del loro stato, vengono venduti all’estero e direttamente riutilizzati o trasformati in pezzame industriale, filati e imbottiture. Con il ricavato della vendita di tutti questi prodotti si sostiene il servizio di raccolta creando posti di lavoro.”
18% FILATI
PASSIAMO AD UN’ANALISI PIU ATTENTA DEI DATI FORNITI
- Gli abiti usati raccolti in modo differenziato evitano danni all’ambiente e riducono i costi per la collettività perchè non smaltiti come rifiuti.
Innanzitutto gli indumenti raccolti vanno a finire nella parte più povera del Pianeta, quindi i containers (ognuno porta 550 balle di abiti) che li trasportano fanno un giro lunghissimo producendo un notevole inquinamento. Quindi direi che i danni all’ambiente ci sono eccome. Riducono i costi per la collettività? Beh, certo non paghiamo noi dalle nostre tasche, ma tutti gli indumenti che vengono inviati e che non sono vendibili (la grande maggioranza) vengono bruciati in discariche a cielo aperto o abbandonati in mare. Personalmente preferisco pagare una tassa in più e sapere che gli abiti vengono smaltiti in modo corretto piuttosto che far morire della povera gente, inquinare l’aria e i mari.
- Dopo la raccolta vengono igienizzati.
Anche in questo caso c’è da dissentire, qualche anno fa Le Iene (QUI potete vedere il servizio al minuto 10:30) ha condotto un’inchiesta in cui un infiltrato chiedeva di comprare in nero dei vestiti appena prelevati senza igienizzazione e indovinate un pò? La richiesta è stata accolta senza battere ciglio!
- A seconda del loro stato, vengono venduti all’estero e direttamente riutilizzati o trasformati in pezzame industriale, filati e imbottiture.
In un documentario un acquirente del Ghana mostra alle telecamere il contenuto di una balla di indumenti da 50 kg che solitamente contiene circa 180-200 pezzi. Di questi ne ha recuperati meno di 10 perchè gli altri erano da discarica (e quindi bruciati o lasciati alle onde del mare). Questa scena non la dimenticherò mai perchè mi ha fornito uno spunto di riflessione molto profondo. La persona intervistata faceva vedere una camicia con il collo sporco, sudato e macchiato. Ha detto che si sentiva insultato, nessuno avrebbe mai indossato una cosa del genere. Ed è proprio questo il punto, abbiamo l’idea che una persona povera si debba accontentare della nostra carità quando noi non stiamo assolutamente facendo nulla di buono. Loro i nostri abiti usati li comprano e quella camicia non avrebbe dovuto essere lì.
- Con il ricavato della vendita di tutti questi prodotti si sostiene il servizio di raccolta creando posti di lavoro.
Per quanto riguarda la parte italiana sicuramente crea dei posti di lavoro perchè qualcuno che si occupa di raccolta e smistamento indubbiamente ci deve essere. Che sia equamente pagato e in regola questo non lo sappiamo, ma tant’è. Di contro questo metodo distrugge l’economia locale dei Paesi poveri che certamente non si arricchiscono considerando che nel rivendere gli indumenti delle balle che acquistano hanno un guadagno massimo di 5 dollari al giorno a fronte di una spesa decisamente maggiore. In Ghana siamo sui 90 dollari, in Kenia anche 200 dollari a balla. Tenendo sempre conto che la maggior parte del contenuto non è rivendibile.
Bene, direi che come primo post dopo un anno di assenza può andare 😉 ma è un argomento molto vasto e importante quindi rimanete connessi e non perdete i prossimi articoli in cui vi consiglierò alcuni documentari che trattano questo tema, ma soprattutto vedremo come reagire in modo costruttivo trovando delle soluzioni alternative a questi terribili cassonetti.
Inoltre, a breve vi parlerò di un’associazione a cui tengo molto che da sempre combatte questo fenomeno, si tratta di Humana. Sicuramente anche nella vostra città esiste uno dei loro negozi second hand, in questo caso la raccolta è tutta un’altra cosa, ma ne parleremo un’altra volta.
* fonte dati: Dead white man’s clothes e Textile mountain